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L’importanza di Sheikh Jarrah: cosa sta accadendo in Israele e Palestina

Il conflitto Israelo-Palestinese è tornato d’attualità a seguito dell’escalation di violenze sfociata nei tragici eventi degli ultimi giorni. Eppure, come spesso accade nella narrazione dell’ormai risalente questione, alcuni elementi centrali per una comprensione più ampia delle vicende rimangono oscurati dalla necessità di diffondere rapidamente i più rilevanti eventi di cronaca. Nonostante le tensioni nell’area non siano mai cessate, il periodo si presenta particolarmente critico per una serie di aspetti contingenti, non ultime le tensioni elettorali che interessano entrambe le parti, sebbene per ragioni differenti.

Facendo un passo indietro rispetto all’inizio dei bombardamenti, è importante tenere presente che il trigger della situazione a cui stiamo assistendo trae origine dalle proteste scaturite per le condotte di Israele nei confronti dei palestinesi, in particolare nella zona di Gerusalemme est. A tal riguardo, il caso di Sheikh Jarrah, di cui si è parlato molto, è solo uno dei numerosi episodi di tal sorta verificatisi nella città santa, rappresentando tuttavia un esempio emblematico delle politiche israeliane portate avanti nelle zone di occupazione ai danni della popolazione palestinese e caratterizzate da numerosi profili di illiceità dal punto di vista del diritto internazionale. In questo articolo, ne parliamo con Chiara Giuliani, analista dell’Istituto Analisi Relazioni Internazionali e Dottoressa di ricerca in diritto internazionale.

Sheikh Jarrah e Gerusalemme est

Sheikh Jarrah è un quartiere arabo situato a Gerusalemme est, il cui territorio venne occupato da Israele nel 1967. Fino a quella data, dal 1948, la Green Line definita al termine del conflitto arabo israeliano divideva la città di Gerusalemme in due parti: quella occidentale, sotto il controllo israeliano, e quella orientale, controllata dalle autorità giordane. Al tempo, in risposta alla risoluzione delle Nazioni Unite che aveva approvato la proposta di internazionalizzazione della città, il Governo israeliano proclamava invece Gerusalemme capitale dello Stato d’Israele, trasferendovi il proprio Parlamento, la Knesset, e diversi Ministeri nel 1950. Successivamente, nel 1967, Israele annetteva l’intera città di Gerusalemme, occupando la parte della città ad est della Green Line. Nel 1980, il Parlamento israeliano adottava la “Legge fondamentale” con cui proclamava Gerusalemme capitale intera e riunificata dello Stato d’Israele. Inoltre, forte del riconoscimento di Gerusalemme quale capitale dello Stato d’Israele da parte dell’amministrazione Trump, avvenuto nel dicembre 2017, è stata deliberata, il 19 luglio 2018, la nuova “Legge fondamentale: Israele quale Stato nazionale del popolo ebraico”, che conferma Gerusalemme capitale “unica e unita” dello Stato ebraico.

Non è un mistero che l’annessione del 1967 sia avvenuta in violazione dell’art. 2, par. 4, della Carta ONU, il quale proibisce agli Stati membri l’acquisizione di territori tramite l’uso della forza, come ricordato anche dal Consiglio di sicurezza nella Risoluzione n. 242 del 1967. In seguito a tale annessione, il Governo israeliano ha intrapreso misure tendenti a modificare lo status della città. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato, in risposta al fenomeno, numerose risoluzioni in cui dichiara espressamente che l’annessione della città e le misure tendenti a modificarne lo status sono da considerarsi nulle o non avvenute.

In particolare, la politica urbanistica che Israele porta avanti nella zona di Gerusalemme est svolge un ruolo centrale in questa progressiva modifica dello status della città santa. A tal riguardo, si consideri che a Gerusalemme est, dove vive ancora oggi la maggior parte della popolazione araba della città, furono costruite, tra il 1967 e il 1995, 64.880 unità abitative per gli israeliani contro le 8.890 per gli arabi. Inoltre, il 54% delle terre detenute da proprietari palestinesi sono state classificate come “open green space” e riservate ai “public purposes”. Il risultato è che tali aree sono sottratte all’edificazione di costruzioni di proprietà di abitanti palestinesi. Solo l’11% della superficie di Gerusalemme est risulta effettivamente edificabile dai proprietari palestinesi. Tale percentuale corrisponde soltanto al 7% dell’intera città.

Anche l’interesse delle organizzazioni internazionali è stato richiamato più volte dalle politiche edilizie adottate nella regione ed in particolare a Gerusalemme est. Ad esempio, lo United Nations Office for the Coordination of Humanitarian Affairs (UNOCHA), a seguito della pubblicazione nell’aprile 2009 di un rapporto sul piano urbanistico di Gerusalemme, dal quale si evince l’implementazione di una politica discriminatoria nei confronti della popolazione araba in termini di licenze di costruzione, permessi abitativi e frammentazione dei quartieri arabi, ha intimato ad Israele di bloccare le demolizioni delle case palestinesi.

Infine, il Governo israeliano ha implementato la fondazione di parchi nazionali in tutta la zona del “Bacino Sacro”. Tale area circonda la città vecchia ed i luoghi sacri subito fuori dalla cinta muraria. La destinazione di queste ampie zone all’amministrazione dell’agenzia israeliana deputata alla tutela del patrimonio storico e naturale non solo limita lo spazio destinato, secondo il piano regolatore, allo sviluppo dei servizi pubblici, come scuole, centri sportivi e ricreativi e parchi pubblici nei numerosi quartieri palestinesi che circondano il “Bacino Sacro”, ma determina anche una vera e propria rimozione delle case palestinesi nella zona.

Al quadro di questa condizione deve aggiungersi il correlato fenomeno, ormai diffuso a Gerusalemme est, deglisfratti esecutivi di ordinanza o di sentenza. Le aree più colpite sono quelle dei sobborghi della città. Più di 200 palestinesi sono stati sfrattati dalle loro abitazioni per lasciare spazio a nuove costruzioni autorizzate in base a reclami di proprietà in nome del popolo ebraico, antecedenti o successivi al 1948. Secondo quanto riferito dall’UNOCHA, solo nel quartiere di Sheikh Jarrah più di 60 palestinesi hanno già perso la propria abitazione nel mese di ottobre 2012 ed altri 800 sono a rischio di perderla in esito a procedimenti portati avanti dai vari gruppi di coloni attivi nell’area.

I fatti recenti

Proprio in questi giorni, 8 famiglie palestinesi stanno rischiando di perdere la propria abitazione per effetto di lunghi procedimenti giudiziari promossi dall’organizzazione di coloni Nahalat Shimon che rivendica la proprietà di quei terreni, risalente al 1885, da parte di ebrei sefarditi. Tuttavia, nel 1956, le prime 26 famiglie di sfollati palestinesi si insediarono nella zona di Sheikh Jarrah a seguito dell’espulsione dalle proprie abitazioni da parte dell’esercito israeliano e delle milizie durante la “Nakba”, quando numerose città arabe passarono sotto lo Stato di Israele. Gerusalemme est era allora amministrata dal Regno Hascemita di Giordania, il quale, con l’approvazione dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (UNRWA), costruì le abitazioni per ospitare le famiglie palestinesi. Nei primi anni ‘60, i membri delle famiglie ivi residenti raggiunsero un accordo con il Governo giordano circa l’attribuzione della proprietà delle case e dei terreni, ricevendo gli atti fondiari ufficiali firmati dagli abitanti stessi. Tuttavia, la guerra del 1967 e l’occupazione da parte di Israele di Gerusalemme est sottrasse alla Giordania il controllo della zona.

Nonostante la Giordania si sia offerta di sostenere le famiglie palestinesi davanti alla giurisdizione israeliana, fornendo documenti attestanti la proprietà palestinese dei terreni oggetto di contesa, la Corte Suprema israeliana ha già ordinato ad alcune famiglie di evacurare la zona, rinviando, invece, una seconda decisione a causa delle proteste che nel frattempo sono esplose.

L’emissione della sentenza, inizialmente fissata per il 9 maggio 2021, è stata infatti preceduta:

  • il 6 maggio 2021, dall’emissione di una prima ordinanza di sfratto di alcune famiglie da Sheikh Jarrah;
  • il 7 maggio 2021, dal divieto imposto dal Governo israeliano ai fedeli palestinesi di riunirsi per l’ultimo venerdì di ramadan presso la Porta di Damasco e nella spianata delle Moschee, come da tradizione.

Alcuni giorni dopo, al fine di sgomberare il luogo, l’esercito è entrato nella spianata e sono cominciati gli scontri, che hanno avuto una notevole eco mediatica nei giorni seguenti.

Le tensioni sono infine degenerate in un vero e proprio conflitto armato che ha visto Hamas aprire il fuoco il 10 maggio contro Israele che, a sua volta, ha subito risposto con l’operazione “Guardiano delle mura, conducendo massicci attacchi via aerea nella Striscia di Gaza.

Il 21 maggio 2021, all’undicesimo giorno di bombardamenti che hanno causato tra i civili migliaia di feriti e centinaia di morti, sopratutto nella Striscia di Gaza, Israele e Hamas hanno raggiunto un accordo per il cessate il fuoco. Tuttavia, la tregua dai bombardamenti non sopisce un conflitto che quotidianamente, in maniera latente, vede la popolazione palestinese vittima di condotte contrarie al diritto internazionale umanitario. Le politiche del Governo Israeliano a danno dei palestinesi precedono gli eventi di questi giorni, e, prevedibilmente, continueranno ad essere implementate nonostante il cessate il fuoco intervenuto tra Israele ed Hamas.

Il Diritto internazionale umanitario e le norme consuetudinarie

“In relazione alle condotte del Governo israeliano nel territorio di Gerusalemme est vengono in rilievo diverse norme del diritto internazionale. In primo luogo, è opportuno richiamare la Quarta Convenzione di Ginevra del 1949 relativa alla protezione delle persone civili in tempo di guerra in quanto la parte orientale della città, secondo quanto previsto dalla Risoluzione delle Nazioni Unite n. 242 del 1967, rientra tra i territori occupati da Israele durante la Guerra dei sei giorni” ci spiega Chiara Giuliani.

“La Sezione III della suddetta Convenzione contiene la disciplina relativa agli obblighi di trattamento della popolazione civile presente nei territori occupati da parte della potenza occupante. Nello specifico, l’art. 47 afferma innanzitutto che i civili che si trovano in un territorio occupato non saranno privati in alcun modo, e per nessun motivo, della protezione ad essi riconosciuta dalla Convenzione, nemmeno nel caso in cui la potenza occupante proceda all’annessione di tutto o parte del territorio occupato. Tra le garanzie riconosciute dal diritto internazionale umanitario, rileva in questo specifico caso la disposizione contenuta nell’art. 49 della Convenzione la quale impone il divieto alla potenza occupante di effettuare trasferimenti forzati, in massa o individuali, delle persone protette al di fuori del territorio occupato, qualunque ne sia la ragione. Inoltre, l’art. 147 annovera tra le gravi violazioni del diritto umanitario commesse contro le persone o i beni protetti dalla Convenzione, la distruzione e l’appropriazione di beni non giustificate da necessità militari. A tal riguardo, il portavoce dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (OHCHR), Rupert Colville, ha affermato che lo sfratto delle famiglie palestinesi dalle proprie abitazioni rappresenterebbe una violazione del diritto internazionale umanitario nonché un crimine di guerra”. L’analista ci spiega che “dal punto di vista giuridico, alcuni esperti hanno cercato di sostenere che Israele non sia vincolato al rispetto delle Convenzioni di Ginevra nei confronti della popolazione palestinese dal momento che non ha mai ratificato il primo Protocollo Addizionale del 1977, il quale rende applicabili le Convenzioni anche nei confronti dei Movimenti di liberazione nazionale, quale è appunto l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina. Tuttavia, è ormai largamente accettato che alcune norme fondamentali del diritto internazionale umanitario abbiano assunto carattere consuetudinario e pertanto risultano applicabili a qualsiasi tipologia di conflitto e devono essere rispettate da tutti i soggetti della Comunità internazionale. Oltretutto, nello Statuto della Corte Penale Internazionale, tra le ipotesi di gravi violazioni del diritto e delle consuetudini applicabili nei conflitti armati sia internazionali sia non internazionali sono ricompresi il divieto di ordinare il dislocamento della popolazione civile e il divieto di distruggere o impadronirsi di beni nemici, salvo che inderogabili ragioni militari lo richiedano”.

Tuttavia, sulla vicenda di Sheikh Jarrah si è pronunciato il Ministro degli Esteri israeliano sostenendo che gli sfratti ordinati in quel quartiere siano riconducibili ad una semplice “controversia proprietaria tra privati”: “ebbene, anche volendo aderire all’interpretazione suggerita dal Ministro israeliano, continuano comunque a sussistere alcuni profili di illiceità alla luce del diritto internazionale. Infatti, la normativa in base alla quale vengono regolate le controversie urbanistiche risulta discriminatoria nei confronti dei soggetti palestinesi favorendo, invece, le pretese dei cittadini israeliani. In particolare, la cosiddetta Absentee Property Law del 1950 prevede la possibilità per lo Stato di Israele di appopriarsi di quei terreni che sono di proprietà di soggetti palestinesi i quali, per varie ragioni, sia su base volontaria sia forzata, si sono trasferiti da quelle proprietà durante la guerra del 1948. In aggiunta, la Legal and Administrative Matters Law del 1970 prevede che la proprietà di terreni collocati nella parte orientale di Gerusalemme, che nel 1948 passarono sotto il controllo dell’autorità giordana, possa essere rivendicata da cittadini israeliani che ne abbiano titolo. Tuttavia, la stessa possibilità non viene riconosciuta ai palestinesi nei riguardi delle proprietà che questi hanno perso durante il medesimo conflitto nella parte occidentale della città di Gerusalemme. Queste leggi, che sono alla base della maggioranza degli sfratti e degli espropri a danno della popolazione palestinese, risultano contrarie ad alcune disposizioni della Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale, di cui sia Israele sia la Palestina sono firmatari. In particolare, l’art. 5 della Convenzione prevede che gli Stati parte devono garantire la piena uguaglianza dinanzi alla legge di tutti i soggetti sottoposti alla loro giurisdizione senza distinzione di razza, colore od origine nazionale ed etnica, rispettando il loro diritto ad un eguale trattamento davanti i tribunali ed a ogni altro organo che amministri la giustizia, nonché il diritto di proprietà e il diritto all’alloggio” ci dice ancora Chiara Giuliani. Lo sfratto delle famiglie dal quartiere di Sheikh Jarrah costituirebbe dunque un illecito, ai sensi del diritto internazionale, nei confronti della popolazione palestinese. Inoltre, l’eventuale riconoscimento da parte della Corte Suprema Israeliana della legittimità delle pretese mosse dai gruppi di coloni costituirebbe un ulteriore e grave precedente politico rispetto ad una tendenza che, fuori dai momenti di tensione che riportano la questione israelo-palestinese sulle prime pagine dei quotidiani, lentamente e incessantemente sottopone ogni giorno migliaia di palestinesi a politiche discriminatorie e illegittime, in violazione dei loro diritti umani fondamentali.

Inoltre, la pandemia da Covid19, durante la quale il governo israeliano non ha smesso di ordinare lo sfratto delle case dei palestinesi, ha soltanto acuito la situazione in termini di disparità di trattamento.

I possibili rimedi offerti dal sistema internazionale

Quali allora i rimedi che il nostro sistema internazionale prevede per il sanzionamento di condotte illecite da parte degli Stati? “L’argomento si inserisce in uno degli ambiti più controversi dell’ordinamento internazionale, ossia quello relativo alla violazione delle norme di diritto internazionale ed alle possibili reazioni da parte dei membri della Comunità internazionale.

In primo luogo, bisogna fare riferimento al sistema di sicurezza collettiva previsto dalla Carta delle Nazioni Unite alla luce del quale, in caso di una minaccia alla pace, di una violazione della pace o di un atto di aggressione, si riconosce in capo al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite il potere di adottare un’ampia serie di misure coercitive, che possono arrivare finanche all’autorizzazione dell’uso della forza armata nei confronti dello Stato che minaccia la pace e la sicurezza internazionale. Tuttavia, il funzionamento del sistema onusiano di sicurezza collettiva trova un grande ostacolo nel diritto di veto che i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza possono opporre contro le Risoluzioni di tale organo, bloccandone così ogni azione che non sia condivisa contemporaneamente da Stati Uniti, Russia, Gran Bretagna, Francia e Cina.

In secondo luogo, essendo la Comunità internazionale composta da Stati sovrani, eguali ed indipendenti, lo strumento principe per l’attuazione coattiva del diritto internazionale appare essere l’autotutela, che si esplica attraverso l’adozione unilaterale di contromisure. A tal riguardo, un numero sempre maggiore di autori riconosce la possibilità in capo ad ogni membro della Comunità internazionale di reagire contro la violazione di norme che impongono obblighi erga omnes, ossia quelle norme che, tutelando valori collettivi della Comunità internazionale sono considerate inderogabili e devono essere osservate nei confronti di tutti gli Stati.

Tra queste, è possibile annoverare le gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani fondamentali e del diritto internazionale umanitario, la violazione del divieto di uso della forza ed il mancato rispetto del diritto all’autodeterminazione dei popoli. Alcuni esempi recenti di contromisure adottate in reazione ad uno o più di tali gravi illeciti si possono individuare nelle misure economiche restrittive adottate da diversi Stati nei confronti della Federazione russa in seguito all’annessione della Crimea nel 2014, o nelle misure restrittive adottate contro il regime di Bashar al-Assad in Siria. In questi casi, l’adozione di contromisure si rende necessaria per esercitare una pressione politica ed economica sullo Stato destinatario delle misure, al fine di convincerlo a porre fine alle sue condotte illecite. In ultimo luogo, è necessario valutare la possibilità di ricorrere agli strumenti offerti dalla giustizia internazionale. A tal proposito, vi sono alcune Corti internazionali permanenti che possono essere adite allorquando sussistano tutti i presupposti per fondarne la giurisdizione ai sensi dei relativi statuti.

Si ricorda, ad esempio, il parere reso dalla Corte internazionale di giustizia nel 2004 con il quale è stata affermata l’illiceità della costruzione del muro nei territori palestinesi occupati. Più di recente, invece, il procuratore della Corte penale internazionale ha accolto la richiesta avanzata dalla Palestina di avviare le indagini sui crimini internazionali commessi nel territorio palestinese occupato a partire dalla data del 13 giugno 2014.

In aggiunta, vi è la possibilità di ricorrere ai meccanismi di controllo previsti da ogni singola convenzione in materia di diritti umani. In questi trattati, infatti, viene solitamente istituito un comitato formato da esperti che su richiesta degli Stati o di singoli cittadini, a seconda di quanto previsto dai Protocolli, è chiamato a pronunciarsi sul rispetto delle norme contenute nella convenzione.

Si noti che la Palestina, il 23 aprile 2018, ha deciso di inviare una comunicazione, ai sensi degli articoli 11 e 13 della Convenzione sull’eliminazione di ogni forma razziale, al relativo Comitato lamentando la violazione degli articoli 2, 3 e 5 della suddetta Convenzione. Purtroppo, i tempi della giustizia internazionale sono molto lunghi e comunque rimane problematico riuscire ad imporre il rispetto delle decisioni. Nondimeno, le pronunce rese da autorevoli organi di esperti rappresentano un importante riconoscimento delle posizioni palestinesi e contribuiscono senza dubbio a legittimarne le pretese sul piano internazionale.”      

La Palestina resta isolata?

Faticosa dunque, ma non inoffensiva, l’operatività del diritto internazionale che offre agli Stati la possibilità di prendere posizione nel conflitto e garantire in tutta la Comunità internazionale l’applicabilità di strumenti di tutela dei diritti umani fondamentali.

Non può certo negarsi che la materia della responsabilità collettiva degli Stati, che viene invocata come strumento per veder garantito il rispetto dei diritti dei palestinesi, sia tuttora soggetta ad un processo di sviluppo progressivo del diritto internazionale, lasciando molto spazio alla discrezionalità degli Stati.

Tuttavia, al di fuori del caso in esame, la Comunità internazionale dovrebbe orientare i propri sforzi verso la tutela dei valori fondamentali che collettivamente riconosce, tra cui il rispetto dei diritti dei singoli, secondo uno standard sempre più alto e universalmente diffuso. Eppure, la natura politica del conflitto israelo-palestinese continua a caratterizzare molti aspetti, anche in relazione agli equilibri geopolitici dell’area. Evidenza che emerge anche dalle scelte politiche degli Stati Uniti in sede ONU e dai recenti accordi di Abramo, sottoscritti il 13 agosto 2020, che sanciscono la normalizzazione delle relazioni tra Israele con Emirati Arabi Uniti e Bahrain e dove si parla di pace e cooperazione in Medio Oriente.

In questo scenario, la Palestina appare sempre più isolata e una soluzione che tenga in considerazione le esigenze di tutti gli attori continua ad apparire, anche alla luce degli ultimi fatti, sempre più lontana.

BIBLIOGRAFIA

  1. Proposta di internazionalizzazione della città. Risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU del 9 dicembre 1949 n. A/RES/303(IV);
  2. Risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU del 9 dicembre 1949 n. A/RES/303(IV) che ribadisce l’internazionalizzazione di Gerusalemme della risoluzione 303;
  3. Le risoluzioni sulla questione di Gerusalemme sono: la risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’ONU del 21 maggio 1968 n. S/RES/252; la risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’ONU del 3 luglio 1969 n. S/RES/267; la risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’ONU del 15 settembre 1969 n. S/RES/271; la risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’ONU del 25 settembre 1971 n. S/RES/298; la risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’ONU del 30 giugno 1980 n. S/RES/476; la risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’ONU del 20 agosto 1980 n. S/RES/478;
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Marina De Stradis

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