La scuola è una delle istituzioni più importanti della nostra società e al suo interno si svolge la cosiddetta “socializzazione secondaria” dove l’individuo “acquisisce le competenze necessarie a svolgere un ruolo sociale adulto” (Ghisleni & Moscati, 2001). Spesso, però, quando si parla di seconde generazioni si crede che gli studenti appartenenti a questa categoria siano neoarrivati e frequentanti la scuola dell’infanzia o la primaria, in realtà vi è un 6% di seconde generazioni anche all’interno delle università italiane. Ma procediamo gradualmente e andiamo a specificare chi indichiamo con la locuzione “seconde generazioni”, spesso abbreviata con “G2”.
Seconde generazioni: una categoria di difficile definizione
Una delle prime volte che venne data una definizione di questo specifico gruppo fu negli Stati Uniti (un Paese di più antica immigrazione rispetto all’Italia) da Child (1943), l’autore indicò con questa terminologia i nati da genitori immigrati e stabilmente insediati nel territorio statunitense.
Un tentativo definitorio molto specifico, frequentemente citato per rendere chiaro il concetto, è quello di Rumbaut (1997) che introduce una visione decimale del fenomeno. Egli distingue tra:
- Generazione 1,25: giovani emigrati (con o senza famiglia) tra i 13 ed i 17 anni che, in alcuni casi, non frequentano la scuola secondaria e la cui esperienza si avvicina molto di più a quella dei primo-migranti;
- Generazione 1,5: ragazzi emigrati tra i 6 e i 12 anni che hanno iniziato la scolarizzazione nel paese in cui sono nati ma dovranno completare il percorso all’estero;
- Generazione 1,75: bambini emigrati tra i 0 e i 5 anni e che si trasferiscono in un paese estero in età prescolare;
- Generazione 2,0: coloro i quali sono nati nel paese di accoglienza da entrambi i genitori stranieri;
- Generazione 2,5: coloro che sono nati da un genitore straniero ed uno autoctono.
Questa classificazione ha come scopo quello di ordinare i vari casi di fronte ai quali ci si potrebbe trovare proprio perché le migrazioni sono un fenomeno molto complesso ed eterogeneo che non segue una via identica per tutte le persone che decidono di impegnarsi in questo percorso. Non dimentichiamo anche che gli individui sono “attori sociali” e, in quanto tali, dotati ciascuno di esperienze di vita differenti. Si collega qui il tema della cittadinanza, infatti i nati da almeno un genitore italiano acquisiscono la cittadinanza al momento della nascita e, di conseguenza, non possono aver fatto le esperienze di giovani che, invece, se ne ritrovano sprovvisti.
Come questo appena citato, vari sono i tentativi di ordinare i casi che si possono presentare, tutti con sfumature differenti. Questo perché non tutti (gli studiosi) prediligono l’utilizzo di “seconde generazioni”, ne dà una motivazione Santagati (2009) affermando che “il fatto stesso che i discendenti degli immigrati vengano definiti mediante il concetto ‘equivoco’ di seconda generazione sembra indicare implicitamente che la condizione immigrata si eredita anche se i figli non sono immigrati in prima persona”. Risulta molto evidente perciò la critica all’“ereditarietà” della migrazione che si trasferisce dai genitori ai figli; a tal proposito Lagomarsino e Ravecca (2014) parlano di “etnicizzazione forzata”. Tuttavia la classificazione di Rumbaut, come precedentemente affermato, è quella maggiormente accreditata e, finora, non vi sono altre definizioni che riescano, in maniera valida e inoppugnabile, a descrivere in maniera migliore il fenomeno.
Un po’ di numeri
In Italia ci sono circa 2.825.182 persone appartenenti alla categoria delle seconde generazioni (Riniolo, 2019). Si specifica “circa” perché è molto difficile riuscire ad ottenere delle informazioni precise su questa popolazione per vari motivi: primo tra tutti la non concordanza sulla definizione dell’oggetto e quindi le caratteristiche che la popolazione censita deve avere; il secondo motivo riguarda l’effettiva rilevazione dei dati, infatti le statistiche ufficiali distinguono i cittadini per età, sesso e cittadinanza, quest’ultima ci permette di distinguere i cittadini italiani dagli stranieri. Non dimentichiamo però, come è stato affermato precedentemente, che chi è un G2 non necessariamente ha cittadinanza straniera quindi è possibile che rientri nella categoria dei nativi.
All’interno delle scuole italiane il 10% degli alunni “è di origine migratoria”. Più della metà (oltre il 65%) di tutti gli studenti stranieri (877.000 nell’anno scolastico 2019/2020, anno a cui si riferiscono i dati riportati) è rappresentato dalle seconde generazioni che sono l’unica componente in crescita della popolazione scolastica. Sul territorio italiano gli studenti stranieri si concentrano maggiormente nelle regioni settentrionali (il 65%), il 22% nelle regioni del centro e il 12% nel sud Italia. Sicuramente è nella scuola primaria dove si iscrive il maggior numero di alunni privi di cittadinanza italiana. Il tasso di scolarità (percentuale che indica quanti giovani si iscrivono a scuola) degli studenti stranieri è simile a quello degli studenti italiani fino al primo triennio della scuola secondaria di secondo grado (terzo anno delle superiori); la forte discrepanza la si ha nei due anni successivi dove il tasso di scolarità degli alunni tra i 17 e 18 anni italiani si attesta intorno all’81% mentre quello degli stranieri diminuisce fino al 73% circa (MIUR, 2021).
Interessante è la scelta della scuola superiore i nati all’estero con cittadinanza straniera optano maggiormente per istituti tecnici o professionali mentre chi è nato nel nostro Paese predilige percorsi scolastici comunemente considerati “più impegnativi”. Sulla scelta degli studenti bisogna fare una piccola parentesi: essa dipende, infatti, da vari fattori tra cui individuiamo non solo le attitudini personali ma anche l’influenza familiare e del gruppo dei pari e le disuguaglianze di partenza (status socio-economico, disabilità, genere, origine etnica, ecc…) che spingono verso la preferenza di una scuola piuttosto che di un’altra. Questi fattori non si esauriscono con l’iscrizione ad un istituto superiore ma influenzano l’intero percorso scolastico e, ovviamente, anche la scelta universitaria, fondendosi con altre variabili, prima fra tutte la facilità (o rapidità, come dir si voglia) nel trovare un lavoro. Quest’ultimo aspetto è anche molto importante, infatti come afferma Bozzetti (2018) i giovani di seconda generazione si affacciano con sempre maggiore consistenza ai livelli scolastico-educativi più elevati, anche perché, come ormai è noto, ottenere titoli di studio più elevati consente (o perlomeno dovrebbe consentire) di riuscire a raggiungere posti di lavoro più prestigiosi, e quindi garantire la mobilità sociale, gli studenti perciò non accettano il modello di integrazione subalterna dei genitori rifiutando di ricalcare le orme lavorative dei padri (Mantovani, 2013).
All’interno degli atenei italiani la percentuale di studenti stranieri si attesta intorno al 6%. Il 45% di questi 101.091 studenti nell’anno accademico 2020/2021 è di origine Europea e, anche qui, si registra una minore presenza di laureati stranieri nei territori del Mezzogiorno. In particolare, i gruppi disciplinari che hanno il maggior numero di laureati di seconda generazione sono quello Economico (24,3%), Linguistico (13,7%) e Medico-Sanitario e Farmaceutico (12,9%) (AlmaLaurea, 2021).
L’achievement gap delle seconde generazioni
Ora possiamo approfondire l’esperienza scolastica degli studenti stranieri e, in particolare, di seconda generazione all’interno degli istituti italiani. Indubbiamente per i ragazzi stranieri il rapporto con il mondo scolastico è importante perché talvolta rappresenta il primo contatto con le istituzioni della società di accoglienza e l’avvicinamento a una cultura diversa da quella della famiglia; sembra perciò evidente come la scuola debba essere pronta a rispondere ad ogni esigenza di studenti non nativi. Tuttavia ci sono importanti fattori che pesano sulla performance degli studenti e, più in generale, sul loro intero percorso scolastico che lo rendono particolarmente accidentato.
Innanzitutto provenire da una classe sociale meno abbiente gioca un ruolo fondamentale nel successo scolastico, a dimostrazione di ciò vediamo come, in Italia, nell’anno scolastico 2018/2019, la quota di ragazzi del secondo anno delle scuole di secondo grado che non hanno raggiunto un livello di competenza alfabetica sufficiente è stata il 46,5% tra i ragazzi appartenenti al quartile socioeconomico e culturale più basso (la media è stata del 30,4%) (Istat, 2021) e non dimentichiamo che le famiglie con almeno un componente straniero si ritrovano in una situazione di povertà in percentuale maggiore rispetto alle famiglie composte solo da italiani. Da quanto appena esposto possiamo dedurre che gli studenti di origine immigrata ottengono esiti e apprendimenti inferiori rispetto ai nativi. La situazione degli alunni stranieri si aggrava se prendiamo in considerazione il ritardo scolastico: circa il 12% degli stranieri di 10 anni ha un anno di ritardo, andando avanti nel percorso scolastico le percentuali salgono rapidamente fino a più che raddoppiare, è il primo biennio della scuola secondaria di secondo grado cruciale nel causare ritardo scolastico dove il 57% di studenti stranieri ha almeno un anno di ritardo (mentre per i nativi questa percentuale si attesta intorno al 19%) (MIUR, 2020). Oltretutto il 40% degli studenti stranieri viene inserito in classi inferiori di un anno rispetto alla propria età o preparazione, con “i piccoli”, il che comporta frustrazione e problemi di socializzazione influendo anche sul ritardo che peggiora con le non ammissioni alle classi successive. Secondo le statistiche gli alunni nati in Italia che hanno dovuto ripetere una volta l’anno scolastico sono il 14,3%, quelli nati all’estero sono quasi il doppio (27,3%). In riferimento all’abbandono scolastico anche qui le percentuali sono più elevate tra gli studenti privi di cittadinanza italiana (35,4%) rispetto ai nativi (11%) (Istat, 2020). Ultimo ma non meno importante, gli studenti stranieri si iscrivono in misura maggiore a percorsi professionalizzanti rispetto ai compagni nativi.
Secondo Boudon (1974) questo deriva dagli effetti del background migratorio che l’autore distingue in primari e secondari. I primari riguardano la padronanza della lingua, infatti, l’essere nato/a in Italia o l’essere arrivato/a in età prescolare riducono fortemente le difficoltà linguistiche che si potrebbero incontrare durante il percorso scolastico. Più tardi si arriva e maggiore è la possibilità che si venga inseriti in classi inferiori e che si incontrino difficoltà nell’imparare la lingua corrente. Altri fattori che incidono sulle seconde generazioni e sul loro percorso sono quelle che vengono definite più genericamente come differenze culturali, poiché gli studenti stranieri potrebbero non essere esposti alla cultura prevalente tanto quanto i nativi, incontrando così delle difficoltà nell’interagire con gli insegnanti e soddisfare le loro aspettative (Heat & Brinbaum, 2007). Anche il ruolo genitoriale è fondamentale, il loro coinvolgimento nella vita dello studente può influire positivamente sul suo successo; le seconde generazioni hanno meno probabilità degli italiani di essere interrogati dai genitori sulla loro giornata scolastica, ricevere assistenza e discutere del futuro scolastico (Mantovani et al., 2018). L’insieme degli attori familiari (quindi anche fratelli e sorelle) costituisce il capitale sociale del giovane studente che può incidere sulla sua performance scolastica (Azzolini & Ress, 2015; Bertozzi & Lagomarsino, 2019; Grasso, 2015).
Per quanto riguarda gli effetti secondari è invece di più difficile costruire un quadro completo e coerente perché lingua, contesto culturale e presenza genitoriale sono variabili facilmente individuabili e analizzabili mentre altri meccanismi sono più nascosti e meno generalizzati. Tra questi ritroviamo: l’accesso alle informazioni prima di scegliere in favore di un percorso scolastico piuttosto che di un altro, ostacoli strutturali come le minori opportunità occupazionali e salariali degli immigrati rispetto ai nativi, differenze culturali riguardanti l’importanza o gli incentivi all’istruzione e il ruolo degli insegnanti che possono adottare comportamenti discriminatori.
Quanto esposto finora permette di affermare che vi è un “achievement gap” che, in questo caso, andremo a definire come la disparità di rendimento scolastico tra gli studenti stranieri e di seconda generazione e i nativi. Tutto ciò si traduce, come abbiamo visto, in livelli più bassi di apprendimento e performance scolastica e tassi di abbandono e ripetenze più elevati per gli stranieri rispetto a nati in Italia. In particolare, con riferimento agli studenti di seconda generazione è stato detto che:
- Quasi il 40% dei nati all’estero viene iscritto in una classe inferiore alla propria età;
- Il loro percorso di studi è incerto e accidentato (ritardi, ripetenze, cambi di direzione, ecc…);
- Circa il 40% dei laureati è in possesso di un diploma tecnico (rispetto al 19,5% dei laureati), il che conferma ulteriormente i dati che gli studenti stranieri (e G2) si iscrivono maggiormente a percorsi professionalizzanti;
- Si immatricolano in età più adulta all’università (il 32,9% si immatricola con due o più anni di ritardo rispetto all’età canonica);
- Hanno più frequentemente esperienze di lavoro durante gli studi (per la maggior parte meno coerenti con gli studi compiuti);
- Usufruiscono maggiormente di borse di studio, ricordiamo che ne beneficiano gli studenti provenienti da contesti socio-economici più svantaggiati (larga parte delle borse di studio infatti è legata al parametro ISEE), quindi il background familiare incide sui percorsi scolastici e universitari.
Alla luce di quanto appena esposto emergono due osservazioni:
- La prima concerne il fatto di aver parlato, nella maggior parte dei casi, di “studenti stranieri”, il che ci riporta alla difficoltà accennata precedentemente nel trovare delle statistiche che riescano a individuare con esattezza la categoria delle seconde generazioni in maniera tale da riuscire a cogliere le loro esperienze di vita;
- In secondo luogo bisogna riuscire a riflettere sulle difficoltà che gli studenti con background migratorio affinché sia possibile, nel lungo periodo, abbatterle e trovare delle soluzioni per facilitare il loro percorso scolastico e universitario e, se non eliminare, quantomeno ridurre l’achievement gap. Tutto ciò, concordando con quanto affermano Lagomarsino e Ravecca (2014), “si deve però accompagnare alla consapevolezza che la condizione migratoria non è una caratteristica immutabile e rigida dell’individuo, ma si interseca con altre variabili”.
Bibliografia
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