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La formazione linguistica dei siriani in Turchia: l’esperienza di Amal for Education al confine tra i due stati

Tra le politiche di accoglienza messe in atto dalla Turchia nei confronti dei rifugiati siriani la formazione educativa e linguistica svolge un ruolo cruciale. Presentiamo il caso dell’organizzazione no-profit Amal for Education.

La presente ricerca è frutto di un’esperienza svolta nella città di Kilis in Turchia presso l’organizzazione no-profit Amal for Education nell’ambito della formazione linguistica dei rifugiati siriani in età scolare e condotta all’interno del corso di laurea in Lingue Orientali e Comunicazione Interculturale presso l’Università per Stranieri di Siena ai fini dell’elaborazione di tesi magistrale. Dopo un breve excursus sulla situazione in Siria oggi e una panoramica delle politiche di accoglienza della Turchia, viene esemplificato il lavoro dell’organizzazione che si inserisce a cavallo tra il punto di inclusione ed esclusione delle due comunità al confine.

La storia del Medio Oriente nel XX secolo è fondamentale per comprendere le dinamiche dei conflitti ancora oggi in corso. Soprattutto quanto accade nei paesi arabi nel 2011 rappresenta uno degli elementi più importanti della storia dell’inizio di questo secolo. Sicuramente, rappresenta il primo vero atto di rivalsa contro le dittature dominanti a favore di un nuovo concetto di nazionalismo per il quale più paesi si muovono più o meno in contemporanea, oltre a segnare per l’intero Medio Oriente un momento di spartiacque, in cui molti degli equilibri interni sono stati messi in discussione. L’espressione comune con la quale si fa riferimento all’insieme delle proteste e delle rivoluzioni che hanno caratterizzato il decennio appena trascorso è “Primavera Araba”. In questo contesto trovano origini le cause che hanno portato, prima alla rivoluzione in Siria e, poi, al suo tracollo in guerra civile. La risonanza mediatica, il senso di riscatto, l’autolesionismo e le innumerevoli vittime generati dalle Primavera Araba, però, non hanno portato a compimento dell’opera iniziata e nella maggioranza dei paesi coinvolti non è stato registrato un cambiamento in giusta misura alle proteste e a ciò che queste hanno scaturito. L’eredità della Primavera Araba è stata piuttosto una maggiore instabilità dell’area mediorientale con casi di estremismo politico e religioso che hanno fatto tracollare interi paesi nei quali il degenerare degli eventi in guerre civili ha portato alla devastazione di intere società. La Siria ne rappresenta il caso emblematico: la rivoluzione scaturita dai moti del 2011 ha generato la più grande crisi in termini di rifugiati e dispersi della storia moderna. Con l’ingresso del conflitto nel suo decimo anno, la situazione diventa sempre più drammatica e sembra inarrestabile. Oltre ai milioni di rifugiati in paesi terzi, secondo il World Vision (2021) sono 6.8 milioni gli sfollati interni che rischiano, ogni giorno, torture e violazioni in aggiunta alla mancanza di cibo e sussistenza primaria. Su un totale di 13 milioni di persone in condizione di estremo bisogno circa il 90% sono giovani e bambini, privati dei fondamentali diritti all’infanzia e all’educazione e, spesso, reclutati come combattenti di cui, solo nel 2019, almeno 657 sono stati uccisi e circa 324 gravemente mutilati. Nello stesso anno, le Nazioni Unite hanno verificato 145 attacchi alle scuole e l’occupazione di 20 strutture utilizzate a scopi militari. Il numero di bambini tagliati fuori dal sistema scolastico supera i 2 milioni (un terzo della popolazione infantile) e 1.3 milioni sono a rischio di abbandono. Nel 2021, il 70% dei siriani vive sotto la soglia di povertà ed ha perso il proprio lavoro e la propria casa. La Siria oggi è un paese ridotto in macerie, derubato delle bellezze dei suoi territori e privato della multiculturalità della sua gente. Le stime sui morti, i feriti e i mutilati sono ormai incontrollabili. Tra la guerra, gli assedi, i bombardamenti e le deportazioni di massa oggi la Siria non è più il  paese dalla grande varietà etnico-culturale che per secoli l’ha definita come la culla dell’umanità. Proprio per questa ricchezza, non è possibile ragionare sulle dinamiche del conflitto, tuttora in corso, senza tenere in considerazione il complesso “mosaico” siriano dal punto di vista etnico-linguistico e religioso: i musulmani sunniti sono la maggioranza nel paese e condividono gran parte del panorama urbano con i cristiani ortodossi; sulle montagne del nord-ovest abitano le comunità dell’eterodossia sciita, i duodecimani, gli ismailiti e alawiti; la regione della steppa nel centro, dell’est e nord-est della Siria è stata tradizionalmente abitata da beduini e da un’alta concentrazione di curdi nella zona nord-orientale del paese; il tutto arricchito da altre comunità etniche e religiose che costituiscono però un’esigua minoranza (cfr. Trombetta 2014). Con l’avvento della guerra, la comunità civile è stata completamente cancellata, non solo come cittadini ma anche dall’intera opinione pubblica.

Per far fronte alla crisi umanitaria creatasi, sono scesi in campo diversi fattori. Dalle agenzie delle Nazioni Unite alla comunità europea, dalle Organizzazioni della Società Civile fino ai singoli governi dei paesi che più sono stati investiti dalla crisi migratoria: Turchia, Libano, Giordania, Iraq ed Egitto. In particolare, questi cinque paesi guidano la gestione della presente crisi attraverso il supporto e gli aiuti della comunità internazionale. Nonché, volenti o nolenti, con l’impegno e le risorse interne a ciascun paese. Secondo il terzo Regional Refugee & Resilience Plan (3RP), alla fine del 2021, sono circa 7.1 milioni i rifugiati e richiedenti asilo registrati sparsi tra questi cinque paesi, di cui 5.6 milioni di nazionalità siriana. La Turchia è il paese che ne ospita il numero maggiore (3.7 milioni), seguono il Libano (844,000), la Giordania (672,000), l’Iraq (252,000) e infine l’Egitto (136,000).

Il progressivo intensificarsi del conflitto ha definito le sorti della popolazione in età scolare e giovanile della presente e, probabilmente, prossima decade. Il forzato allontanamento dal sistema scolastico, l’abbandono delle scuole e, più in generale, le conseguenze derivanti dalla

guerra hanno avuto un impatto drammatico nel loro progresso educativo. Secondo il World Education Services (2016), nel 2014, sono circa 2.5 milioni gli studenti registrati nel sistema di istruzione primaria e circa 2.8 milioni quelli registrati per l’istruzione secondaria. L’anno successivo, sono 2 milioni invece i bambini siriani rimasti fuori dal sistema scolastico a causa dell’intensificarsi del conflitto e dei bombardamenti sulle scuole. La stessa sorte tocca anche i giovani in fascia di età universitaria (18-22 anni) a cui la guerra non ha risparmiato gli anni di studio. Nel 2015, l’Istituto di Educazione Internazionale (IIE) stima circa 450,000 universitari siriani che, a causa della loro condizione di profughi, non hanno potuto intraprendere un percorso universitario nel paese. Secondo UNICEF (2021), oggi ci sono 3.2 milioni di bambini senza accesso alla scuola: 2.45 milioni in Siria, di cui il 40% sono femmine, e 750.000 nei paesi limitrofi. Inoltre, una scuola su tre in Siria è fuori uso perché distrutta, danneggiata, utilizzata come rifugio dalle famiglie o usata per scopi militari. L’accesso all’istruzione in Siria rimane una sfida insormontabile. Nonostante gli sforzi da parte degli aiuti umanitari e l’accesso all’istruzione per i rifugiati siriani nei paesi ospitanti, è impensabile restituire ad una generazione intera gli anni di formazione persi in egual misura ad un paese non colpito da una guerra civile. Il trauma derivato dal conflitto, l’abbandono forzato delle proprie case e lo sconvolgimento delle proprie abitudini ha generato quella che comunemente viene intesa come “The Lost Generation”.

Il numero maggiore di siriani fuggiti dal proprio paese si trova in Turchia, un paese storicamente caratterizzato da una lunga e variegata migrazione tra i suoi confini. Oggi la Turchia rappresenta il paese con il più alto numero di rifugiati e sfollati al mondo. Sul totale di 4 milioni registrati, il 91% è di origine siriana. Fin dallo scoppio della guerra civile in Siria, nel 2011, la Turchia ha adottato una politica di “porte aperte” nei confronti della popolazione che fuggiva dalla guerra, senza porre limitazioni al numero di ingressi fino alla chiusura definitiva dei propri confini, nel 2015, a causa dell’intensificazione del conflitto e delle minacce crescenti verso le città turche al confine.

Oggi sono 3,7 milioni i rifugiati siriani presenti in Turchia e le politiche di accoglienza adottate dal paese sono state (e continuano ad essere) cruciali, benché non sempre tempestive, per la risposta all’emergenza umanitaria. Per far fronte all’emergenza siriana, il governo turco, in accordo con l’Unione Europea (dichiarazione del 18 marzo del 2016), ha adottato il regime di Protezione Temporanea che permette, nei casi di un afflusso di massa di persone non provenienti da paesi UE, una tutela immediata e temporanea senza il rimpatrio al paese di origine, a meno che non se ne faccia espressa richiesta (principio del non-refoulement, contenuto anche nell’Articolo 33 della Convenzione di Ginevra). Tutti i cittadini siriani che hanno cercato protezione in Turchia dallo scoppio della guerra civile sono stati accolti sotto questo regime che ha garantito loro una serie di diritti, servizi e assistenza primaria gratuita e senza limitazioni di tempo. I primi anni dell’accoglienza sono stati caratterizzati da una generale visione di temporaneità della presenza dei siriani in Turchia, l’opinione più diffusa infatti era che il conflitto in Siria avrebbe avuto una risoluzione in tempi brevi. Tuttavia il protrarsi della situazione ha fatto sì che da una visione emergenziale del problema si sia passati ad una visione ordinaria, soprattutto da parte delle autorità turche, e la conseguenza principale è stata il riadattamento delle suddette politiche di accoglienza con il fine di includere i siriani nella società turca a tutti gli effetti.

La formazione educativa e linguistica dei rifugiati siriani in Turchia è uno dei punti cruciali all’interno delle politiche di accoglienza che il governo turco ha adottato e modificato durante gli anni dell’emergenza. Il punto di svolta è stato nel 2016 con la graduale chiusura dei Centri di Educazione Temporanea (TECs), presenti sia all’interno che all’esterno dei campi profughi, che fino ad allora hanno fornito a milioni di siriani in età scolare la possibilità di ricevere un’istruzione in lingua araba senza dover interrompere il percorso di apprendimento a causa della guerra. Con il graduale processo di inclusione dei siriani nel sistema scolastico turco, però, è stata esclusa la componente araba dal curriculum scolastico a favore di uno esclusivamente in lingua turca, andando di fatto a privare i soggetti di un continuum nello studio della propria lingua di origine. Tuttavia, fornire un’istruzione anche in lingua araba alla giovane generazione siriana è cruciale per un piano a lungo termine, poiché saranno le persone che un domani ricostruiranno la Siria del futuro. Inoltre, i bambini rifugiati possono avere la capacità di costruire un futuro prospero e in pace, se ricevono gli strumenti adeguati per la loro educazione. Investire nell’educazione è pertanto fondamentale perché dà alle persone l’opportunità di migliorare sé stessi e il rapporto con gli altri. Inoltre, questa fornisce maggiore consapevolezza, riduce i matrimoni tra minori e lo sfruttamento minorile. Fallire nel fornire un’educazione adeguata significa fallire nella costruzione di un futuro di pace e progresso. Allo stesso modo, è fondamentale per la nuova generazione siriana mantenere un legame con la propria lingua e cultura di origine, in prospettiva di un futuro ritorno in Siria, anche se tuttora lontano, e per la grande opportunità di formare una generazione bilingue traendo beneficio da una situazione di svantaggio.

In questo contesto si inserisce il lavoro sul campo dell’associazione no-profit Amal for Education che dal 2013 opera a Kilis in favore della formazione educativa e linguistica rivolta ai rifugiati siriani in Turchia. L’idea educativa che sta alla base delle attività dell’associazione è fondata sul recupero delle abilità linguistiche. In particolare, il legame affettivo, identitario e culturale con la lingua araba ha fornito da subito la chiave per un insegnamento focalizzato sulla lingua come accesso a ogni forma di partecipazione civile, nonché la sicurezza di una stabilità quotidiana per i bambini e loro famiglie. Dall’idea di ricreare un ambiente quanto più vicino al paese e alla cultura di origine, gli obiettivi che l’associazione si è imposta si basano principalmente sulla creazione di una comunità bilingue, preservando la lingua araba e includendo quella turca nel bagaglio di istruzione, e sulla fruizione di un sostegno psicologico e di integrazione nella vita sociale in Turchia. Il lavoro sul campo è stato caratterizzato dai continui adattamenti ai tanti cambiamenti intervenuti nella situazione dei profughi nell’area in cui l’organizzazione opera. Secondo Amal for Education, il piano di integrazione messo in atto dalle autorità turche presenta delle difficoltà strutturali che all’interno del sistema educativo emergono nei programmi scolastici caratterizzati da un forte senso nazionalista e una generale sottovalutazione della varietà lingusitica, culturale e identitaria. La negazione dell’identità linguistica e culturale è fonte di conflitto e rivendicazione, rallenta o impedisce in molti casi il processo di accettazione da parte siriana dell’integrazione, vissuta come una cancellazione identitaria e linguistica a favore della comunità locale dominante. Allo stesso tempo nel caso di un ritorno in Siria, l’educazione svolta unicamente in turco impedirà a un’intera generazione l’accesso a professioni e ruoli che richiedono la gestione della lingua in tutte le sue componenti (saper parlare, comprendere, leggere e scrivere). Il tutto in aggiunta alla mancata costruzione di un percorso con le famiglie siriane, da parte del governo turco, che riduca le diffidenze verso la comunità turca e che progressivamente renda costruttiva la permanenza indeterminata nel Paese. La necessità di una scolarizzazione in lingua araba è quindi forte e, visto l’abbandono della lingua nel curriculum scolastico turco, il compito viene assegnato all’educazione non formale attraverso il lavoro delle organizzazioni come Amal for Education. Essa pone al centro della sua filosofia l’attenzione alla formazione linguistica rivolta a persone rifugiate, dimostrando come questa rappresenta a tutti gli effetti la carta vincente per un futuro di preservazione della propria identità linguistica e culturale (in questo caso quella siriana) e al tempo stesso dell’inclusione e dell’integrazione verso l’identità nuova (quella turca).

Una delle azioni chiave dell’Unione Europea riguarda la politica di integrazione dei migranti che ha visto, dal 1999 in poi, il susseguirsi di programmi e accordi per la definizione di un quadro comune, che ancora oggi non sembra esserci. In nessuno dei programmi e degli accordi, comunque, viene differenziata la tipologia di migrante e questo esclude di fatto un’attenzione mirata alle condizioni dei profughi e ai differenti bisogni derivanti da tale status. Secondo quanto riporta Rottman (2020) nel suo working paper il concetto di “integrazione” rimane senza una definizione universale nonostante i numerosi programmi e ricerche per lo studio e l’accezione di tale termine. La definizione utilizzata dall’Unione Europea esprime il concetto di integrazione attraverso un processo di mutuo riconoscimento dei diritti e doveri da parte del migrante e delle società ospitanti. In alcuni casi però, il termine assume un’accezione negativa in quanto indica il processo di assimilazione del migrante nella società ospitante, la quale tende a neutralizzare la sua identità di origine a favore della propria; questo meccanismo può comportare una maggiore propensione al razzismo e all’unità nazionale escludendo di fatto le differenze sociali. Ancora, Rottman afferma che al livello base del termine la parola “integrazione” ha a che fare con la parola “inclusione” e, ancora più specifico, con “inclusione differenziale” che sta ad indicare i vari gradi di confine tra ciò che sta all’interno o all’esterno dello spazio d’inclusione. La Turchia rappresenta in questo senso un caso-studio emblematico di “inclusione differenziale” perché i rifugiati presenti nel territorio non sono riconosciuti come tali a causa della loro non-denominazione di rifugiato derivata della clausola di limitazione geografica contenuta nella Convenzione di Ginevra (1951) e firmata dal governo turco. Tale clausola non permette il pieno riconoscimento dello status di rifugiato a tutte le persone che non provengono da stati UE. In questo senso, la maggior parte dei migranti in Turchia non possono essere legalmente riconosciuti come rifugiati e richiedenti asilo. In questo elaborato, è stato utilizzato il termine “rifugiato” nella sua più ampia accezione.

In generale, si parla di integrazione quando due gruppi sociali o culturali diversi si incontrano per la prima volta. Nel caso dei siriani e dei turchi, questo primo gradino non è stato necessario in quanto entrambi hanno condiviso secoli di dominazione dell’Impero Ottomano che li ha accomunati sotto il punto di vista culturale e geografico, quindi a livello locale non sono state incontrate grosse difficoltà per trovare un punto di incontro nell’accoglienza. Il grado di confine tra l’inserimento o meno nello spazio di inclusione, nel caso siriani-turchi, si concentra esclusivamente all’abilità linguistica poiché essi parlano due lingue formalmente diverse. La barriera linguistica può rappresentare un confine insormontabile se non curata delle giuste attenzioni. Conoscere e parlare la lingua locale ha un forte significato identitario che può fare la differenza tra il rimanere fuori lo spazio di inclusione o venire inserito all’interno. Inoltre, l’impossibilità di calcolare il tempo di permanenza dei siriani in Turchia e la poca sicurezza nell’affermare quanti di loro lascerebbero il paese per tornare in patria, posiziona la barriera linguistica tra quelle più urgenti da sormontare per ottenere un buon grado di coesione all’interno della società. Il lavoro di Amal for Education si propone come obiettivo il “vivere insieme”, culturalmente e linguisticamente, che viene trasmesso a tutti i suoi beneficiari fin da piccoli. Sarebbe auspicabile una sempre più maggiore presenza di realtà simili ad Amal for Education in zone il cui confine è molto labile, come per la cittadina di Kilis, in modo da instaurare una proficua collaborazione tra i governi locali e le Organizzazioni della Società Civile che si occupano di educazione non-formale, per permettere anche una maggiore chiarezza e condivisione di termini quali inclusione e integrazione.

Fonti e approfondimenti:

-Declich L. (2017), Siria: la rivoluzione rimossa. Dalla rivolta del 2011 alla guerra, Roma, Edizioni Alegre.

-Trombetta L. (2014), Siria: Dagli Ottomani agli Asad. Inoltre, Milano, Mondadori Università.

-Rottmann S. (2020 o.l), Integration: Policies, Practices and Experiences Turkey Country Report, nel sito Academia.edu (URL: (PDF) Integration Policies, Practices and Experiences – Turkey Country Report | Susan Rottmann and RESPOND HORIZON 2020 – Academia.edu). -Unicef (2021 o.l), Siria Crisi Regionale 10 Anni Dopo, nel sito Unicef (URL: La drammatica situazione dei bambini in Siria, dopo dieci anni di guerra | UNICEF Italia)

Serena Orselli

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