L’Europa sembrava sul punto di concludere il suo lungo e travagliato processo di secolarizzazione. Il termine ‘secolarizzazione’, come riportato nell’Enciclopedia delle Scienze Sociali (1997), fa riferimento a “due aspetti diversi del processo di perdita di rilevanza della religione nella vita sociale”. Il primo è quello della differenziazione e autonomizzazione di ambiti della vita sociale, ovvero il trasferimento di potere, attività e funzioni da istituzioni religiose a istituzioni statali, come avviene nella separazione Stato-Chiesa e nell’emancipazione dell’istruzione dall’autorità ecclesiastica, un contesto in cui lo Stato veglia anche sulle modalità del culto e della morale. Il secondo aspetto, di più grande portata, si riferisce invece all’indebolimento della religiosità sul piano culturale, dell’esistenza collettiva e individuale. Da quest’ultimo punto di vista, l’esperienza del religioso è tornata centrale nel vecchio continente seguendo le rotte delle migrazioni. Nuovi simboli, esperienze religiose, rituali, credenze abitano ormai lo spazio pubblico europeo, al punto che si può già parlare di un contesto post-secolare. In questo contesto rinnovato, da un punto di vista politico e sociale, non sembra possibile né immaginabile un percorso di inclusione che non tenga conto dell’esperienza di fede dei migranti, che spesso si traduce nel paese ricevente nella forma della comunità religiosa. Il riconoscimento giuridico e la legittimazione sul piano sociale delle comunità religiose vengono ancora visti come alterazione e minaccia dello status quo piuttosto che annidamenti di un patrimonio immateriale straordinario. Questa ostilità affonda le sue radici nell’opinione pubblica e trova una sponda amica nelle complesse cornici giuridiche che regolano i rapporti tra gli stati europei e le confessioni religiose. Ne deriva un contesto normativo fortemente diversificato che non riconosce le potenzialità della comunità di fede come acceleratore di processi di inclusione, come importante agente di mediazione verso l’esterno e che, come nel caso del nostro paese, compromette la piena fruizione di un diritto fondamentale come quello della libertà religiosa.
Un contesto plurale e post-secolare.
Sulla spinta dei processi di modernizzazione buona parte dell’Europa ha allentato il legame con il religioso. Il processo di secolarizzazione ha perimetrato il terreno e tracciato i confini dell’azione religiosa. Sembravano ormai maturi i tempi per la realizzazione storica del concetto teorico della “Città secolare” di Harvey Cox (1965), studioso americano che si interrogò sul ruolo sempre più marginale delle religioni in epoca post-moderna. Oggi, alcuni decenni dopo la pubblicazione del volume di Cox, si può sostenere con certezza che le cose non sono andate proprio come ci si aspettava e che l’elemento religioso, seguendo per lo più le rotte migratorie – e gli istinti reazionari di chi parla di “invasione” o di “sostituzione etnica” – è tornato protagonista nei rapporti con lo Stato, nel discorso pubblico, nell’esistenza individuale di tantissime persone nel vecchio continente, come anche nell’irruzione di nuovi simboli, oggetti, edifici nello spazio pubblico. L’analisi di Norris e Inglehart (2004) sulla crisi delle teorie della secolarizzazione aveva già individuato il ruolo fondamentale di rottura del dispositivo religione-immigrazione. L’immigrazione è importantissimo fattore dei processi di post-secolarizzazione grazie alla marcata tendenza a restituire centralità alla religiosità. Confrontando dati di natura economica e sociale da una parte, e pratiche religiose dall’altra, i due studiosi hanno rilevato un nesso di proporzionalità diretta tra insicurezza sociale e il crescente valore della religione teorizzando che la religiosità del Sud del mondo avrà effetti crescenti sul profilo delle società di accoglienza. Nuovi concetti entrano in soccorso per descrivere questo rinnovato contesto. Il più credibile e accreditato è quello habermasiano di post-secolare(J.Habermas: 2005). Per post-secolarizzazione si intende la nascita di un nuovo scenario, totalmente sconosciuto e inesplorato, in cui le religioni ridefiniscono il loro ruolo e il loro perimetro d’azione in un regime di laicità nei rapporti con lo Stato e di pluralismo nella coesistenza nello spazio con altre confessioni e comunità. In Europa e più che mai in Italia, si può affermare che l’immigrazione costituisce un importante acceleratore del processo di post-secolarizzazione e un vettore che restituisce centralità alle dinamiche e ai modi dell’esperienza religiosa (Ambrosini, Naso, Paravati: 2018).
Laicità per addizione
Il modello di riferimento che meglio si addice a questo rinnovato contesto post-secolare, e che sembra rispondere adeguatamente alle dinamiche di uno Stato laico e liberale, è quello della laicità per addizione (Naso: 2015). Secondo questa prospettiva uno Stato risulta tanto più laico quanto più riesce a garantire in un regime di uguaglianza la presenza e il riconoscimento nel discorso pubblico delle confessioni. Ciò che sembra prevalere nelle politiche italiane e degli Stati membri è invece l’opposta tendenza alla sottrazione, all’indifferenza nei confronti del particolarismo e del pluralismo che caratterizzano il nuovo contesto. L’immobilismo che contraddistingue questo approccio penalizza le nuove comunità – islamica, induista, Sikh – in attesa del riconoscimento giuridico e sociale concesso invece ad altre comunità storicamente insediate nel discorso pubblico, si pensi alla comunità ebraica ad esempio. Nel caso di una chiusura delle istituzioni verso il riconoscimento e la valorizzazione di questi attori sociali, diventa quasi inevitabile l’utilizzo della religiosità come scudo identitario, come elemento di riconoscibilità e chiusura verso un contesto esterno che riserva solo precarietà perpetua.
Il fattore R nell’esperienza migratoria
Nel descrivere le strutture fondamentali della religione Durkheim (2005) ricorre a due categorie antropologiche. La prima categoria è quella dell’affidamento, elemento centrale nell’esperienza migratoria dove si innescano inevitabilmente processi di ricerca interiore e sradicamento esistenziale. La seconda è quella dell’aggregazione, che nelle società riceventi si traduce nella forma della comunità religiosa. Queste comunità per la loro capacità di assorbire l’urto del contatto con la società ricevente e con l’esperienza migratoria rivestono una straordinaria funzione di resilienza. Da una parte questi luoghi costituiscono un forte elemento di continuità culturale e identitaria, dall’altra un punto di riferimento nell’assistenza sociale ed economica e nella mediazione con la società ricevente. Il sociologo Hirschman (2004) ha sintetizzato nelle sue “tre R” le funzioni delle comunità nei percorsi di inserimento dei migranti. La prima “R” è quella di rifugio, nella funzione aggregativa di contrasto all’alienazione del percorso migratorio. La seconda è la “R” di rispetto, nella capacità di restituire dignità e un’immagine sociale positiva. Mentre la terza e ultima è quella di risorse, nell’accezione pratica dell’assistenza economica e sociale e nella funzione di indirizzamento che quasi sempre trova risposta e veicolo nelle figure delle guide religiose. In questa prospettiva si può parlare quasi a pieno titolo di welfare religioso (Ambrosini, Naso, Paravati: 2018), un tipo di welfare che è sia integrativo che sostitutivo di quello nazionale. Ma qual è il grado di valorizzazione e riconoscimento di queste comunità? L’Unione, gli Stati membri, in particolar modo il nostro paese, garantiscono la piena applicazione del diritto alla libertà religiosa?
Il rapporto con le confessioni. Le competenze dell’Unione europea
L’Unione europea si è dotata di strumenti in grado di tutelare la libertà religiosa delle persone che risiedono sul suo territorio. In particolare, l’art.10 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, atto normativo dello stesso rango dei Trattati, sostiene il diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione così come la libertà di manifestare la propria religione o la propria convinzione individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti. Tuttavia, a livello di Unione abbiamo assistito a una lunga vicenda riguardo all’inserimento o meno dei riferimenti alle origini cristiane dell’Europa nel Trattato Costituzionale. La proposta non andò a buon fine per l’opposizione dei Paesi di forte tradizione laica, primo fra tutti la Francia. Ma l’esigenza dei singoli Stati membri di vedere tutelato il principio di sovranità in politica ecclesiastica venne soddisfatta a partire dalla Dichiarazione n.11 annessa al Trattato di Amsterdam. L’Unione europea si impegna a rispettare e non pregiudicare «lo status previsto nelle legislazioni nazionali per le chiese e le associazioni o comunità religiose degli Stati membri […]». È infatti in ragione di questa Dichiarazione che si spiega la mancanza di competenza dell’Unione nel definire il regime relativo a chiese, associazioni e comunità religiose. Tali previsioni sono state accolte nel Trattato di Lisbona. L’articolo 17 TFUE, Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea, mantiene solida e invariata la sovranità nazionale in materia di politica ecclesiastica.
Modelli vecchi per un contesto nuovo: il comunitarismo inglese.
Dal punto di vista del rapporto tra Stati membri e confessioni religiose il quadro è variegatoe si può affermare che modelli storicamente definiti hanno avuto un ruolo di riferimento. Uno dei modelli più consolidati, anche se ormai la Gran Bretagna non fa più parte dell’Ue, è il modello confessionale pluralistico inglese. La Gran Bretagna mantiene la matrice confessionale perché presuppone la famiglia reale a capo della chiesa anglicana e l’automatica carica a vita dei ventisei vescovi della chiesa anglicana nella Camera dei Lord. Allo stesso tempo la politica comunitarista di matrice post-coloniale riconosce pienamente il pluralismo religioso e le sue comunità. Il modello inglese ha riscosso spesso simpatie per un approccio politically correct, ma alla base di questo comunitarismo c’è una matrice marcatamente coloniale. La formula sembra essere quella del riconoscimento in cambio della non commistione: viene affidata alla comunità etnica e religiosa la possibilità di ricostruire le modalità delle proprie comunità senza che vengano incentivati il dialogo e la mediazione con l’esterno. Inizialmente tale progetto di riconoscimento sembrava funzionare, ma con l’aumento della popolazione immigrata e l’accrescimento della loro visibilità nella sfera pubblica, fino alla formazione di veri e propri quartieri etnici, questi enclaves territoriali rischiano di favorire sentimenti di segregazione e ghettizzazione. In questi quartieri si ripropongono addirittura gli stessi conflitti interni alle realtà sociali dei gruppi etnici, come i conflitti generazionali e di genere. Questa condizione favorisce la formazione di processi di chiusura in gabbie etniche che finiscono per rallentare, se non impedire, il percorso di integrazione e l’interculturalità (Enzo Pace: 2004).
L’Universalismo laico francese
Il modello laico, universale franceseè modello opposto a quello inglese. L’integrazione – o meglio, l’assimilazione – è imposta come processo progressivo di tipo isomorfico. Il modello alla base dell’universalismo francese è la legge sulla laicità del 1905 che segna una separazione drastica tra Stato e chiesa per cui, nel nome della Rivoluzione francese, lo Stato non riconosce alcuna confessione religiosa: da qui il divieto di esposizione di simboli religiosi nello spazio pubblico per un principio radicale di laicità per sottrazione, per cui un paese è tanto più laico quanto riesce a sottrarre elementi religiosi dallo spazio pubblico. L’esclusione dell’elemento religioso viene visto come chiave per una maggiore coesione sociale, nonché prerogativa per la nascita di una vera e propria religione civile, che passa per la divinizzazione della cittadinanza e dei princìpi di Stato. In quest’ottica il modello francese ha un indiscusso fascino sul piano normativo, ma l’annullamento dell’elemento religioso, in un contesto di mancata integrazione sociale, porta inevitabilmente all’innalzamento del fenomeno della religione come scudo identitario e come canale di comunicazione di un disagio che è soprattutto sociale (Ambrosini, Naso, Paravati: 2018). La chiusura aprioristica a qualsiasi riconoscimento o emersione del particolarismo favorisce processi individuali e collettivi di reazione che hanno prodotto massificazioni nei confini sociali delle banlieue. I problemi in Francia riguardano soprattutto l’integrazione delle persone di fede islamica. Le forme di radicalismo islamico degli ultimi anni sono la forma comunicativa con cui si denuncia un disagio sociale in seguito a una mancata integrazione. Si può parlare quindi, riprendendo gli studi di Roy(2017), politologo francese, di islamizzazione del radicalismo e non di radicalismo islamico. Si tratta di un disagio sociale che spinge un cittadino a canalizzare la propria alterità nell’Islam e che smentisce la narrazione dell’Islam come vettore di marginalizzazione.
Il rapporto tra Stato e confessioni in Italia.
La mancanza di una legge sulle libertà religiose rappresenta probabilmente, insieme alla legge sulla cittadinanza, il grande punto di debolezza del modello italiano di integrazione. Questo punto è stato più volte sottolineato negli ultimi anni anche da alcuni rapporti di organismi internazionali tra cui il rapporto speciale delle Nazioni Unite sulla libertà di religione e quello dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa. In particolare, questi organismi hanno evidenziato la necessità di una legge che definisca una procedura di riconoscimento “rapida, trasparente, equa, inclusiva e non discriminatoria” e che rimuova “ostacoli burocratici non necessari o periodi di attesa incalcolabili” (Human Rights Council,Report of the Special Rapporteur on freedom of religion or belief, Heiner Bielefeldt: 2011). Una nuova legge è indispensabile anche per non incappare in eventuali ricorsi alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, che in diverse sentenze ha già mostrato di ritenere contrarie all’art. 9 della Convenzione europea procedure di riconoscimento che non rispettino i requisiti previsti dagli ordinamenti internazionali. La Corte europea dei diritti dell’uomo, tra l’altro, ha già affrontato casi italiani attinenti al fenomeno religioso: in particolare si è pronunciata in materia di riconoscimento degli enti di culto non cattolici (caso Associazione spirituale per l’unificazione del mondo cristiano 1987), di otto per mille (caso Spampinato, 2007), di effetti civili di una pronuncia di nullità matrimoniale di un tribunale ecclesiastico cattolico (caso Pellegrini, 2001), di statuto degli insegnanti dell’Università cattolica del Sacro cuore (caso Lombardi-Vallauri, 2009), di esposizione del crocifisso nelle scuole statali (caso Lautsi, 2009 e in appello 2011) e di festività ebraiche (caso Sessa, 2012).
Il principale strumento normativo per la disciplina giuridica delle confessioni religiose diverse dalla cattolica è tuttora la legge del 24 giugno 1929, n. 1159 e il suo relativo regolamento di attuazione, il regio decreto 28 febbraio 1930, n. 289, di epoca fascista. Ai sensi dell’articolo 1 della legge n. 1159 “Sono ammessi nel Regno culti diversi dalla religione cattolica apostolica e romana, purché non professino principi e non seguano riti contrari all’ordine pubblico o al buon costume. L’esercizio, anche pubblico, di tali culti è libero.” La legge sui culti ammessi del 1929 è in aperto contrasto con il dettato costituzionale, a partire dal nome che delinea una forma obsoleta di tolleranza dello Stato rispetto alla presenza di alcuni culti e non di protagonismo e pieno riconoscimento. Questa legge non si basa sul principio della libertà religiosa così come concepito dalla Costituzione all’art.19, che stabilisce il diritto per tutti di professare liberamente la propria fede religiosa, all’articolo 20,che vieta l’introduzione di speciali limitazioni legislative o fiscali per le associazioni religiose, e dall’art.10 della CEDU. Grazie alla giurisprudenza della Corte costituzionale molti limiti della legge in vigore sono stati superati ma manca in Italia una legge sulla libertà religiosa, che in attuazione dell’art.19 della Costituzione, garantisca diritti e obblighi per le “nuove confessioni” del nostro paese, che non rientrano nel quadro istituzionale previsto dagli artt. 7 e 8 della Costituzione.
Una laicità relativa
La nostra Costituzione all’art.19 sancisce il principio della libertà religiosa definendolo sotto il profilo individuale e collettivo, estendendolo alla possibilità di farne propaganda, tutelando quindi la dimensione pubblica dell’esperienza religiosa. Nonostante l’adeguatezza dell’art.19, anche dal punto di vista costituzionale l’ordinamento italiano presenta importanti elementi di favore confessionale. L’art.8 Cost. prevede un modello di laicità e sancisce che le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge, che le confessioni diverse da quella cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, secondo rapporti con lo Stato regolati dallo strumento giuridico dell’Intesa. Allo stesso tempo però, l’art.7 Cost. specifica che il rapporto tra lo Stato e la Chiesa cattolica è invece regolato dallo strumento del Concordato, ponendo così in una posizione di subordinazione le altre confessioni religiose. Se l’Intesa è uno strumento parlamentare, il Concordato implica un processo lungo e tortuoso per ammettere un’eventuale modifica. Il Concordato del 1929, rivisto poi nel 1984, ha risvolti molto più ampi delle intese con le altre confessioni. La Chiesa cattolica può beneficare dell’8×1000, dell’ora di religione nelle scuole, la cui autorità appartiene al Vaticano, ma la retribuzione allo Stato italiano, i privilegi fiscali di cappelle e cappellanie, la grande visibilità nello spazio pubblico, nell’accesso negli ospedali e nelle carceri o l’egemonia su alcune strutture, come strutture sanitarie o scuole. Oltre a questo svantaggio iniziale, confessioni e comunità religiose incontrano numerosi ostacoli nella via verso il riconoscimento. Infatti, oltre che per la laicità relativa, il modello italiano si caratterizza per una struttura verticistico-piramidale.
Un modello verticistico – piramidale
In cima alla piramide vi è appunto il rapporto con la chiesa cattolica regolato dai Patti Lateranensi del 1929 e dalla loro revisione del 1984. Al secondo livello vi sono le confessioni che hanno regolato i loro rapporti con Stato attraverso lo strumento dell’Intesa. Le prime intese dello Stato italiano con altre confessioni risalgono all’84: la prima Intesa è quella stipulata con la Chiesa Valdese, successivamente le intese con le altre Chiese Evangeliche e con la comunità ebraica. Dal 2012 si è riattivato il processo di riconoscimento di alcune confessioni, sono state infatti stipulate intese con buddisti, induisti, ortodossi e mormoni. L’accordo bilaterale con lo Stato italiano permette a queste confessioni di vedere la loro condizione giuridica uniformarsi maggiormente a quella della Chiesa cattolica. Ma la mancanza di una legge ha determinato uno squilibrio nell’intero sistema di relazioni tra Stato e comunità religiose in Italia. Se la stipulazione delle intese del 1984 ha parzialmente attenuato la posizione verticistica della Chiesa cattolica, attraverso il pieno riconoscimento di altre organizzazioni religiose, allo stesso tempo si è ampliato lo scarto tra le comunità che sono riuscite a concludere un’Intesa con lo Stato italiano e quelle che ne sono rimaste prive. Gli ultimi livelli della piramide sono infatti occupati dalle confessioni con riconoscimento della personalità giuridica e da quelle che, prive di qualsiasi legittimazione o riconoscimento, sono costrette a costituirsi come associazioni culturali senza specificazione dei fini. Le prime non sono riconosciute come soggetti religiosi ma possono comunque accedere ad alcune pratiche come la celebrazione dei matrimoni, in virtù del riconoscimento dei propri ministri; le seconde, scartata la possibilità di costituirsi come ente morale ai sensi della già citata legge del ’29, per gli ingerenti controlli statali a cui sarebbero sottoposte, non hanno altra scelta che mimetizzarsi nelle forme associative del diritto comune. Criticità a cui, come suggerisce Silvio Ferrari nel suo articolo “Perché è necessaria una legge sulla libertà religiosa?”, un semplice registro non solo delle confessioni ma anche delle associazioni religiose potrebbe porre rimedio.
Manca l’intesa per un Islam italiano.
Tra le confessioni senza Intesa, e quindi costituitesi come associazioni, vi sono le confessioni islamiche: oltre 900 moschee, eccezion fatta per quella riconosciuta di Roma. La mancanza di un’Intesa con l’Islam è stata giustificata per l’eccessivo pluralismo interno al mondo islamico. In effetti la storica difficoltà interna alle associazioni islamiche nel perseguire forme di standardizzazione ha giocato un ruolo importante nel processo di convergenza verso un “islam italiano.” Ma questa tesi non restituisce a pieno le responsabilità politiche dei nostri governi, specialmente se si guarda alla pluralità delle intese trovate con le rappresentanze del mondo evangelico e buddista.
Anche se si volesse assumere il punto di vista di chi si approccia al tema seguendo cifre securitarie e identitarie, il mancato riconoscimento di queste associazioni rappresenta un forte elemento di criticità. Il fatto che i soggetti religiosi si costituiscano nella forma dell’associazione dovrebbe incontrare in primis l’opposizione dello Stato italiano, soprattutto in termini di emersione delle comunità. Le associazioni, infatti, rappresentano dei funghi spontanei che se marginalizzati sul piano politico e sociale, per gli stessi motivi riportati nel caso delle banlieue francesi, possono risultare terreno fertile l’insorgenza di insofferenza sociale ed episodi di radicalizzazione.
La firma del 2017 del Patto per un Islam italiano aveva portato al riconoscimento giuridico della moschea di Roma e aveva posto le basi per una convergenza dei pluralismi nell’ottica di un’intesa unitaria, segnando un importante passo in avanti nel riconoscimento di una delle fedi religiose più presenti sul territorio nazionale. L’arrivo di nuove politiche securitarie e repressive portate avanti dal governo Conte I entrato in carica nell’aprile del 2018, il c.d. governo giallo-verde, ha poi bruscamente interrotto questa trattativa.
Conclusioni
I processi migratori sono stati acceleratori nell’affermazione del pluralismo religioso nel nostro continente. In un contesto europeo e italiano profondamente mutato dal punto di vista della presenza religiosa, le comunità di fede assumono quindi un ruolo di primordine sul piano sociale. Il loro mancato riconoscimento da parte delle istituzioni rappresenta un’occasione mancata: queste comunità rivestono funzioni importantissime di assorbimento del trauma migratorio, di mediazione con la società ricevente, di erogazione di servizi e risorse integrativi rispetto al welfare nazionale. Dal punto di vista delle politiche, in aperto contrasto con il contesto appena descritto, il riconoscimento e la legittimazione delle comunità religiose vengono visti come alterazione e minaccia dello status quo precedente. Una miopia politica che è tanto più ingiustificata quanto più si pensa alla tendenza all’isomorfismo istituzionale nella mediazione, nelle forme e nei modi di approcciarsi al rapporto con le istituzioni propria di questi attori sociali (Ambrosini, Naso, Paravati: 2018). In Europa il riconoscimento del nuovo pluralismo incontra le resistenze di vecchi modelli storici di integrazione completamente inadeguati a fornire nuove risposte. In Italia, invece, la mancanza di una legge sulla libertà religiosa è oggetto di rilievi da parte di organi delle Nazioni Unite e di ricorsi alla Corte europea di Strasburgo e rappresenta un impedimento alla piena fruizione di un diritto costituzionalmente garantito. Una nuova legge generale sulla libertà religiosa assicurerebbe a tutte le confessioni quel diritto comune riconosciuto ai pochi soggetti confessionali che hanno stipulato l’intesa con lo Stato italiano. Ne consegue la mancanza di una via giuridica accessibile dove le nuove e piccole comunità (indù, buddiste, musulmane ecc.) possano inserirsi senza ricorrere alle strutture giuridiche le più varie. In generale ciò che accomuna questi approcci è il rifiuto di un rapporto di scambio istituzionalizzato tra Stato e comunità religiose. Sottesa a questa tendenza vi è l’idea di uno Stato tanto più laico quanto più risulta indifferente ai particolarismi. Al contrario, in un contesto sempre più plurale, post-secolare e globalizzato sembra più opportuno pensare che un rapporto più stretto e intenso tra stati e confessioni, l’emersione delle comunità nello spazio pubblico e una valorizzazione di questo particolarismo non pregiudichino, ma legittimino, il principio di laicità.
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